coronavirus vestiti

In collegamento dai camerini del pianeta Terra, in questa non richiesta dissertazione, desidero approfondire una tematica decisamente bistrattata, quasi fosse (inconcepibilmente) irrilevante e senza la quale, dico, CHISSA’, potreste campare cent’anni ed oltre: si parla di outfit da quarantena.

Sono passati più di sessanta giorni da quel primo infausto annuncio che decretò la sospensione di ogni contatto sociale.

Dopo un iniziale sconcerto, in cui per memoria muscolare si è portato avanti abitudini difficili da cancellare (se non con un paio di Spritz in videochat e due cori da stadio in balcone), anni di disciplina e rigore nella routine quotidiana sono andati a carte quarantotto.

Da allora in ognuno di noi qualcosa si è spezzato e quel piccolo Enzo Miccio che ci sussurrava all’orecchio al risveglio si è trasformato nella versione Drugo del mio eroe Marvel preferito, un piccolo Lebowsky vieppiù sciatto e svogliato.

Ora, possiamo far finta di nulla ma anche chi non ha avuto accesso allo smart working ha subìto una metamorfosi, si tratta della sindrome da Apocalisse, altrimenti detta effetto Mad Max.

L’abbigliamento ora segue solo le regole della funzionalità con lo scopo di:

  • coprire le pudenda,
  • riparare da freddo e intemperie,
  • spaventare i nemici,
  • favorire la fuga in caso di pericolo
  • accelerare il processo di “svacco”.

Mad Max Fury Road

Siccome mi piacciono gli elenchi voglio qui descrivere le 3 macro categorie che sono venute a configurarsi allo stato dei fatti:

  1. I vestiti al 100% – Si tratta di quell’insieme di persone, gli Essential Workers, che stanno vivendo una sorta di normalità placebo. Escono, vanno a lavorare con circospezione e sospetto, tornano a casa and repeat. La mancata interruzione delle regolari attività quotidiane li ha costretti a mantenere uno standard ma abbassandone notevolmente il profilo adattandolo a uno scenario post-apocalittico: niente scarpa abbinata alla cintura, la camicia vaga libera fuori dalla patta, mascherina calata a 2/3 e guanto in nitrile. Must have: schizzi del caffè preso al volo in fuga dall’ennesima rissa domestica.

outfit

  1. I vestiti al 50% – questa è la categoria degli Smart Workers. In linea di massima lo SW si veste ma lo fa di malavoglia, arriva a metà e si blocca nel momento esatto in cui il piccolo Enzo Miccio che è in lui si soffoca con l’ennesima frittura lasciando la scena al Drughino. Ne consegue un quadro generale da Gira-La-Moda giocato da scimmie cieche sotto l’effetto di sostanze lisergiche: una vaga compostezza senza eccessi nei dettagli dalla vita in su, un tripudio di braghe in poliestere o flanella infilate in calzini di spugna incastrati in un paio di invereconde ciabatte di gomma sotto la linea di demarcazione.

Smart worker casa

  1. I tutati/pigiamati – di questo gruppo fanno parte casalinghi, cassintegrati, operatori di marketing piramidale, disoccupati, pensionati, studenti, tranne in occasione di webinair ed esami (in quel caso verranno assorbiti dalla categoria sopra descritta), depressi, spacciatori latinos e chiunque abbia messo su più di 3 kg negli ultimi 2 mesi.

smartworker

Le tre categorie, è chiaro, sono da intendersi come strutture certamente non rigide: è possibile entrare ed uscire da esse, incrociarle e dissociarsene completamente, preferendo tenute dai più adamitici richiami in base al mood e alle necessità.

Un’ultima nota di merito va al minimo comune denominatore tra i rappresentati dei vari gender: lo stato di degrado del quadro generale.

I capelli, inselvatichiti, hanno dimenticato il tocco di una mano non ostile, barbe e pelurie seguono i principi del caos in un slancio di crescita esponenziale, cedevoli sofficità su ventri e fianchi, fiati adulterati da un festoso abuso di cibi “speziati”, occhiaie e texture della pelle da ululone appenninico.