Dodici anni fa, il 6 novembre, moriva in un ospedale di Milano Enzo Biagi, giornalista e scrittore che ha lasciato un segno indelebile nella cronaca italiana della seconda metà del Novecento.

Figlio unico di una coppia di contadini, Enzo Biagi nacque a Pianaccio, un piccolo borgo sugli Appennini, il 9 agosto 1920.

All’età di nove anni Biagi si trasferì con la sua famiglia a Bologna, dove il padre aveva trovato un lavoro come capo magazziniere in uno zuccherificio della zona.

Mentre stava frequentando l’istituto per ragionieri, Enzo con alcuni amici fondò una piccola rivista, Il Picchio, che fu chiusa dopo pochi mesi a causa di una polemica contro i fascisti.

A diciassette anni, nel 1937, Biagi pubblicò sull’Avvenire d’Italia il suo primo articolo, che era su una polemica legata al poeta crepuscolare Marino Moretti, e da li iniziò una lunga collaborazione con la rivista nel settore della cronaca e del costume.

Nel 1940 Enzo venne assunto nella redazione serale di Il Resto del Carlino, il giornale di Bologna, come estensore di notizie, ma nel 1943, dopo la caduta del fascismo, prese la decisione di unirsi ai partigiani della zona, anche se fu solo una staffetta e poi il redattore del giornale partigiano Patrioti, che dopo poco dovette chiudere a causa della distruzione della tipografia in un bombardamento tedesco.

Dopo essere entrato con gli alleati a Bologna, Biagi torno a lavorare con Il Resto del Carlino, per cui prima seguì nel 1946 il Giro d’Italia e poi nel 1947 il matrimonio della regina Elisabetta II d’Inghilterra.

Nel 1951 Enzo fu in prima linea durante l’alluvione del Polesine, ma dopo pochi mesi dovette lasciare il Carlino per alcune sue dichiarazioni contro la bomba atomica.

Ma i suoi articoli avevano destato l’interesse di Arnoldo Mondadori, il più potente editore italiano dell’epoca, che prese la decisione di dare al giovanissimo cronista la direzione della sua rivista di cronaca Epoca.

Dal 1952 fino al 1960, Biagi condusse Epoca a diventare una delle riviste di punta del panorama del rotocalco italiano, fino a quando non venne costretto a dimettersi dopo una serie di attacchi al governo Tambroni.

Il 1 ottobre 1961 l’instancabile Enzo, che era diventato un inviato del giornale La Stampa di Torino, diventò il direttore del Telegiornale della Rai, che sotto la sua guida assunse Indro Montanelli e Giorgio Bocca, oltre al giovane Emilo Fede.

Nel 1962 Biagi propose il primo rotocalco televisivo, RT Rotocalco Televisivo, ma un anno dopo decise di lasciare il ruolo di capo del Telegiornale per poter lavorare in maggior autonomia, anche se i suoi rapporti con la Rai non cessarono.

Agli inizi degli anni Settanta Biagi divenne il direttore di Il Resto Del Carlino, con un occhio particolare alla politica e alla cronaca, ma dopo pochi mesi lasciò la redazione a causa delle polemiche con l’editore Attilio Monti, che era amico del ministro delle finanze Luigi Preti.

Per tutti gli anni Settanta e Ottanta Enzo fu attivismo sia sul fronte televisivo, con programmi come Film Dossier e Spot, sia su quello della carta stampata, con non solo il suo lavoro come cronista per il Corriere della Sera, ma anche come scrittore, con romanzi come Disonora il padre del 1979 e biografie come Ferrari del 1980.

Con l’arrivo degli anni Novanta, Biagi iniziò nel 1995 quella che sarebbe stata la sua trasmissione televisiva di maggior successo, Il Fatto, in cui dopo il TG1 svolgeva un piccolo approfondimento sui fatti più importanti del giorno.

Ma, dopo otto anni di successo ininterrotto, nel 2002 la trasmissione venne sospesa a causa delle polemiche tra Biagi e Silvio Berlusconi, allora a capo del governo.

Amareggiato, Enzo tornò a dedicarsi ai suoi articoli e ai suoi libri, ma in poco tempo perse prima la moglie Lucia e poi nel 2003 la figlia Anna per un infarto.

Solo nel 2007, con una nuova versione di RT Rotocalco Televisivo, Enzo riuscì a tornare sulle reti Rai, ma ormai il suo fisico era stremato da numerosi problemi cardiaci e renali.

Ricoverato in un ospedale di Milano, Enzo Biagi morì il 6 novembre 2007 a 87 anni e venne sepolto a Pianaccio sulle note di Bella Ciao, la canzone partigiana che per lui era sempre stata il simbolo della sua Resistenza.