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Un poeta che raccontò la Trieste tra due guerre…

Virgilio Giotti nacque a Trieste, quando era parte dell’Impero austro-ungarico, il 15 gennaio 1885, da Riccardo Schönbeck, di origini boeme, e di Emilia Ghiotto, veneta.

Nel 1907 si trasferì con la famiglia a Firenze per sfuggire alla leva asburgica e per diversi anni fece il viaggiatore di commercio, recandosi soprattutto in Svizzera.

Il poeta nel 1912 conobbe la russa Nina Schekotoff, che divenne la sua compagna e da cui ebbe tre figli: la piccola Natalia, Paolo e Franco, i ragazzi che morirono in Russia durante la seconda guerra mondiale.

Nel 1920 ritornò a Trieste, ma, anche se pubblicava prose e liriche in alcune importanti riviste, tra cui Solaria e Riviera Ligure, cui lo avvicinavano gli intellettuali triestini, in particolare l’amico Giani Stuparich, visse isolato fino alla morte, avvenuta il 21 settembre 1957, lavorando come edicolante e poi come impiegato presso l’Ospedale Maggiore di Trieste.

Importante nella sua formazione l’amicizia con il poeta Umberto Saba e il filosofo Giorgio Fano, il quale sposò in prime nozze sua sorella Maria.

Ma, quando Giorgio la lasciò per la scrittrice Anna Curiel, Maria si suicidò assieme al figlioletto.

Come poeta Giotti esordì a Firenze nel 1914 con il Piccolo canzoniere in dialetto triestino cui seguirono Caprizzi, Canzonete e Stòrie pubblicate per Solaria nel 1928, Colori nel 1941, Sera nel 1946 e Versi nel 1953.

Il poeta sottopose i suoi testi a una rigorosa elaborazione, di cui si conservano oggi numerose redazioni a mano o dattiloscritte.

Nei primi versi di Giotti si avverte l’influenza di Pascoli, di Gozzano e dei crepuscolari poi, da Caprizzi, Canzonete e Stòrie nei suoi versi domineranno i motivi che lo avvicineranno a Di Giacomo e alla produzione di Saba.

Il dialetto di Giotti è un dialetto che, pur rimanendo naturale, non è vernacolare ma intellettualistico e contrasta con il carattere dei suoi temi, legati al quotidiano di Trieste.

Diversamente da Svevo e Saba, la Trieste di Giotti non è il porto asburgico della Mitteleuropa ma  un quadro di affetti e persone, che vive nell’uso del dialetto e nell’ambientazione, sfondo ideale per una poesia di forte tensione lirica.

Nei suoi versi prevale la quartina di endecasillabi ritmati in modo parziale con tipiche inversioni metriche, che rendono ben bilanciate le figure sintattico-ritmiche.

Tipico di Giotti è l’uso dell’enjambement, soprattutto nella seconda raccolta, che arriva a dividere non solo i gruppi sintattici tra strofa e strofa o tra verso e verso, ma anche la stessa parola in due parti.

Il periodo non coincide con la strofa ed è spezzato al centro da forti pause e la punteggiatura è fittissima e analitica e per trovare un accordo pù colloquiale bisogna arrivare all’ultima raccolta, vicina a certi versi di Saba.

Fu autore anche di poesie in lingua, come Liriche e idilli pubblicate per Solaria nel 1931, oltre che di un diario privato, Appunti inutili, e di alcuni racconti e tradusse nel 1946, dal russo, la Lettera alla madre del poeta Esenin.

La sua lirica in triestino fu sempre molto apprezzata fin dal 1937 quando il critico Pietro Pancrazi dedicò al poeta triestino un articolo sul Corriere della Sera, e da altri famosi critici, come Fubini, Sapegno, Segre e Contini, che ne scrissero molte recensioni positive.

Pier Paolo Pasolini scrisse di Giotti un ritratto che ne raccontava il lato più umano, così come fece l’amico Stuparich nel 1944 nei racconti di Trieste nei miei ricordi.